mercoledì 14 agosto 2013

Partiti, movimenti e democrazia


PARTITI, MOVIMENTI E DEMOCRAZIA

Si discute, in questi giorni, di una proposta di legge presentata da alcuni esponenti del Partito Democratico mirante a regolarizzare e istituzionalizzare l’attività dei partiti politici, in base allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione (in particolare l’articolo 49 che recita “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”). E’ dal 1948 che questa norma costituzionale attende di essere attuata.

Come spesso accade in Italia quando si toccano certe posizioni da tempo cristallizzate, certi interessi, certi privilegi, si scatena la polemica con i più vari pretesti.

In questo caso si dice che la proposta è strumentale al fine di eliminare la competizione dei cosiddetti movimenti e dei partiti non strutturati democraticamente, i partiti proprietari, i partiti e i movimenti fondati sull’autorità e i soldi di un capo/padrone. Va riconosciuto che l’obiezione, anche se essa stessa strumentale, è fondata, perché i proponenti si svegliano ora dopo un torpore durato più di mezzo secolo, ma è anche vero che nella prima repubblica alle elezioni si presentavano veri e propri partiti politici, con sedi, sezioni, iscritti, consigli nazionali eletti sostanzialmente con metodo democratico dai congressi provinciali, regionali e nazionali.

Oggi l’elettore si trova di fronte a schede/lenzuola con partiti, movimenti, coalizioni dai nomi più fantasiosi, la maggior parte dei quali facenti capo a un leader o a un ristretto gruppo dirigente autonominato, titolari del nome e del simbolo, oltre che dei soldi dei rimborsi elettorali, elargiti a piene mani dallo stato senza controlli sugli utilizzatori e sulla loro destinazione.

Ripeto, il momento scelto per attuare, finalmente, il dettato costituzionale sulla democratizzazione, trasparenza, dei partiti politici, intermediari indispensabili in un sistema democratico, senza i quali c’è deriva autoritaria, populista, non è dei più felici,  vista la fragilità della coalizione di governo e l’assoluta necessità ed urgenza di privilegiare i provvedimenti sull’economia, il lavoro, le riforme, soprattutto quella del sistema elettorale.

Siamo di fronte a un vero e proprio ricatto da parte di chi ha in mano le sorti del governo o di chi potrebbe averle a breve termine, sia per quanto riguarda l’attuazione dell’articolo 48, sia per la questione dell’ineleggibilità di Berlusconi in base alla Legge del 1957, finora interpretata come se il titolare delle concessioni televisive non fosse lui ma il suo dipendente Confalonieri. Infine anche sulla legge elettorale.

Una regolamentazione dei partiti, assegnando loro una personalità giuridica, obblighi di trasparenza, certificazione dei bilanci, rendicontazione dell’uso dei contributi pubblici e privati, democrazia interna, sarebbe non solo necessaria, finalmente, ma anche urgente e non si capisce perchè debba essere aggirata chiamando movimento un partito.

Ripugna dire che in questo particolare momento esistono priorità molto importanti e che forse è opportuno, purtroppo, evitare sconquassi, anche a costo di farsi accusare di spiacevoli cedimenti. Non dimentichiamo che i due terzi degli italiani che hanno votato in febbraio non sembrano molto interessati a un vero rinnovamento della nostra democrazia. Preferiscono evidentemente le facili promesse e gli urli in piazza.

(Maggio 2013)

 

    

 

 

lunedì 6 maggio 2013


LEGGI ETTORALI MAGGIORITARIE E LA COSTITUZIONE

Vorrei commentare un intervento di Salvatore Dattilo sulle pagine di questo giornale datato 25marzo, senza la pretesa di competere con le  argomentazioni giuridiche per le quali non ho la sua preparazione. Dico subito che concordo in gran parte con quanto da lui illustrato in tema di sostanziale incostituzionalità delle leggi elettorali maggioritarie con premio di maggioranza, come è quella attualmente in vigore, denominata ormai da tutti, compresi i suoi autori, “Porcellum” e com’era quella precedente, il “Mattarellum”. Negli anni ’50 del secolo scorso un’altra legge elettorale che prevedeva un premio di maggioranza che peraltro scattava solo se una coalizione di partiti raggiungeva la metà più uno dei voti, nonostante questo fu denominata “legge truffa” e non scattò.
Sono d’accordo sull’interpretazione degli articoli 1 e 3 della Costituzione  che sanciscono l’uguaglianza degli elettori di fronte alla legge, sul fatto che il premio di maggioranza viola questo principio e per quanto riguarda l’articolo 48 che stabilisce che i rappresentanti eletti dai cittadini non hanno vincolo di mandato, cioè rappresentano tutti, anche coloro che non hanno votato per loro, e di conseguenza non sono obbligati a seguire alcuna direttiva di partito.
Non sono invece d’accordo su altre due affermazioni di Dattilo e cioè che la governabilità è un idolo di recente invenzione e che l’unico sistema elettorale che non viola la Costituzione è quello proporzionale. La governabilità è una necessità assoluta, anche se non espressamente menzionata dalla Costituzione, in qualunque forma di stato ed è anzi lo scopo per il quale si costituisce un governo e può funzionare, cioè governare.
Come si può ottenere la governabilità in una società democratica rappresentativa dove i cittadini-elettori delegano ai loro rappresentanti eletti la costituzione di un governo il più possibile stabile e la confezione ed applicazione di leggi e norme che regolino la vita quotidiana della società? La risposta è semplice: con la formazione di una maggioranza che dia la fiducia a un governo e ne approvi le proposte di legge via via presentate. Senza una maggioranza parlamentare, nei due rami del Parlamento, un governo non solo non può reggersi, ma nemmeno formarsi, lo stiamo vedendo anche in questi giorni, pur con una maggioranza ampia nella Camera, grazie al premio assegnato dal “Porcellum”, e una divisione in tre o quattro gruppi contrapposti al Senato. E’ una situazione che una legge elettorale proporzionale aggraverebbe ancor più, perché i gruppi in Parlamento, anziché tre o quattro, sarebbero magari dieci o dodici.
L’uguaglianza dei cittadini-elettori sancita dalla Costituzione è garantita con l’esercizio del diritto di voto, ma poi chi vince governa e gli altri esercitano il diritto di opposizione. Con il proporzionale è ben difficile che esca un vincitore, occorreranno sempre estenuanti trattative fra gruppi, scambi di favori, poltrone, compromessi spesso precari e veti incrociati. Lo hanno dimostrato i cinquant’anni della prima repubblica, quando i governi si susseguivano, si formavano e cadevano, quasi uno all’anno.
Per tale motivo, come male minore, sarei favorevole ad una legge elettorale con collegi uninominali a doppio turno. Si voterebbe per le persone e non per i partiti. Chi vince il seggio va a Roma. Non è garantito che anche con questo sistema si possa in ogni caso eleggere una maggioranza definita e solida, ma si evita l’eccessivo frazionamento e i cittadini possono votare direttamente il loro rappresentante locale, magari scelto con le primarie da ogni partito o gruppo.  Al primo turno si vota il candidato preferito, ma poi, al secondo turno, l’elettore deve fare la sua scelta definitiva fra i due che hanno ottenuto più voti. Fra l’altro, con questo sistema, l’eletto rappresenta comunque la maggioranza assoluta dell’elettorato ed avrà più autonomia nei confronti dell’eventuale partito o gruppo di riferimento, attuando quindi  la norma costituzionale del “senza vincolo di mandato”.

Inciucio o Collaborazione?


INCIUCIO O COLLABORAZIONE?
Mi riesce difficile esprimere un’opinione su quanto è accaduto e sta accadendo nel nostro paese dopo le elezioni politiche di febbraio che hanno dato risultati deludenti in termini di governabilità e di stabilità, in un momento in cui ci sarebbe invece bisogno di essere uniti per fronteggiare la grave crisi economica che ci angustia, più di ogni altro paese in Europa, salvo forse un paio.
In un mio intervento, scritto a caldo dopo la tornata elettorale, vista l’assoluta, pregiudiziale indisponibilità del Movimento Cinque Stelle, auspicavo, non senza rassegnazione, che potesse essere raggiunto un accordo con il PDL per affrontare le emergenze, ma esprimevo il timore che l’ingombrante presenza di Berlusconi, dopo l’esperienza disastrosa del suo ventennio e con tutti i suoi problemi anche giudiziari, potesse rendere del tutto precario l’accordo stesso, del resto malvisto dalla maggioranza degli elettori di tutti gli schieramenti.
E’ cosa normale, nei paesi democratici, che si formino governi di coalizione, con programmi di ragionevole compromesso, quando le urne non producono maggioranze più omogenee perché l’elettorato è diviso.
Pierluigi Bersani, così contestato anche all’interno del Partito Democratico e addirittura tradito in modo subdolo – dopo un voto favorevole in assemblea - da un centinaio di franchi tiratori, a mio parere si è mosso avendo in mente l’interesse del paese. Ha tentato il tutto per tutto per coinvolgere i grillini in un progetto di cambiamento, voluto anche da loro a parole, poi andando incontro anche al PDL con la candidatura di Marini alla Presidenza della Repubblica, candidando poi Romano Prodi, una bandiera da sempre per il centrosinistra (che era addirittura compreso nella rosa di nomi del Movimento Cinque Stelle). Anche quest’ultimo tentativo è fallito. Prodi, nonostante ciò che alcuni hanno scritto anche su questo giornale, sarebbe stato un Capo dello Stato di grande prestigio internazionale, malvisto tuttavia dal cavaliere che lui è riuscito a battere  un paio di volte. Non è affatto vero che Prodi era avversato dai capi di stato europei. Solo l’Inghilterra, notoriamente fredda con l’Europa, era infastidita dal suo attivismo come Presidente dell’Unione. Poteva esserci, è vero, un terzo tentativo sposando la candidatura Rodotà,  terza scelta di un M5S dopo un sondaggio sul WEB che gli ha assegnato poco più di quattromila preferenze, ma non in cambio di sberleffi o velatissime aperture.
Per nostra fortuna, come capita spesso in Italia alla luce del nostro proverbiale stellone, avevamo di riserva Napolitano, un quasi novantenne più lucido di tanti quarantenni di recente emersione, che ci ha posti di fronte alla gravità della situazione ed ha costruito l’operazione Letta, unica soluzione possibile, checché ne dicesse chi sognava governi di minoranza, di scopo, del Presidente, tutti precari e infine dannosi.
Non è, per noi con il cuore orientato al centrosinistra, certamente la soluzione che speravamo. Non ci garba proprio l’alleanza con quel signore che ci ha governato disastrosamente per tanti anni e che sta già minacciando di staccare un’altra volta la spina se non otterrà certi provvedimenti che stanno a cuore a lui personalmente o sono stati determinanti per la sua recente rimonta, come l’abolizione/restituzione totale dell’IMU sulla prima casa. E’ noto a tutti che ciò costerebbe alle casse dello stato oltre 8 miliardi che dovrebbero essere rimpiazzati da altri tipi di tassazione (la proposta del PD di aumentare la detrazione da 200 a 400 Euro abolirebbe l’IMU per quasi la metà delle famiglie, quelle meno abbienti, e costerebbe poco più di 2 miliardi).
Purtroppo, due terzi degli elettori hanno scelto di non votare per chi speravamo noi e tanti altri cittadini si sono rifugiati nell’astensione. L’Italia ha bisogno di un governo, il più stabile e duraturo possibile e il governo Letta, a mio modesto parere, è il meglio che ci si potesse aspettare in queste condizioni. Ha un programma ambizioso, forse troppo in relazione alle risorse disponibili o reperibili, ma è al momento l’unica chance.
Nel frattempo, è imperativo che il PD (al quale io non appartengo ma per il quale semplicemente simpatizzo) e la sinistra si ricompattino. Barca o Renzi, Finocchiaro o Epifani o Bindi  e lo stesso Bersani, e le nuove leve recentemente emerse, devono rimboccarsi le maniche e rafforzare il partito. Non sono d’accordo con chi discute sulla diversità e inconciliabilità delle anime che lo hanno costituito, quella ex popolare e quella ex diessina. In tutto il mondo ci sono partiti, a destra e a sinistra, con all’interno correnti di pensiero diverse ma con lo stesso obbiettivo e la stessa filosofia della società.
E’ ora che anche in Italia la si smetta con le scissioni e con i piccoli partiti. Spero che la prossima legge elettorale li scoraggi una volta per tutte.

mercoledì 26 dicembre 2012

IL FASCISMO CARATTERIALE DEGLI ITALIANI


IL FASCISMO CARATTERIALE DEGLI ITALIANI

Con interesse, ma anche con buone dosi di dissenso, ho letto l’analisi di Macchi Alfieri su “Libertà” del 4 dicembre. Ne condivido sostanzialmente una prima parte, dove descrive i caratteri del fascismo del ventennio, modellati su quelli del suo inventore e capo assoluto, Mussolini. Prepotenza, sopraffazione, repressione di ogni dissenso, violenza, superficialità nel decidere, pregiudizi, amoralità.
Posso anche concedere che in un certo modo queste caratteristiche facciano parte del bagaglio storico di noi italiani e che il Duce abbia avuto vita facile ad imporre per due decenni il regime assoluto che ha portato l’Italia alla distruzione, dopo tre guerre insensate, Africa, Spagna e II guerra mondiale. Vita facile e strada spianata, tuttavia, dalle complicità e dall’appoggio della monarchia e della classe dirigente di allora.
Non si può dimenticare che la conquista del potere nell’ottobre 1922 fece seguito a un biennio di inaudite violenze nei confronti delle istituzioni locali democraticamente elette, delle associazioni di lavoratori, dei sindacati, delle cooperative, dei giornali di sinistra, violenze che non avrebbero avuto successo senza l’acquiescenza e la tolleranza delle autorità, delle polizie, delle Forse Armate, perfino del silenzio di buona parte della Chiesa. La semicarnevalesca marcia su Roma si sarebbe risolta in un sonoro fiasco se la monarchia non si fosse schierata con l’eversione. Il popolo subì le violenze e si piegò alla forza e in seguito, dopo l’istituzione della dittatura, resa possibile, ancora, per l’acquiescenza della monarchia e delle classi dominanti liberal-conservatrici, si ritirò nell’indifferenza e nel ben noto individualismo, caratteristica, questo sì, di noi italiani.

martedì 6 novembre 2012

CINQUANT’ANNI DAL CONCILIO Mauro Rai, su Libertà del 5 novembre, scrive un lungo ed accorato articolo sul grande evento del secolo scorso, voluto da papa Giovanni XXIII sorprendendo con la sua iniziativa, non condivisa da tutti nell’ambito della gerarchia vaticana, il mondo cristiano e la stessa Chiesa Cattolica, a quasi ottant’anni dal precedente frettoloso Concilio Vaticano I e dopo quattro secoli dal cruciale Concilio di Trento che durò diciotto anni e fu definito Concilio della Controriforma perché costruì un argine alla dilagante diaspora protestante. Penso che l’evento riguardi anche noi laici, molti anche poco credenti, perché non solo la religione, ma soprattutto la forte e diffusa presenza della Chiesa in molti aspetti della nostra vita incidono nella vita quotidiana di noi cittadini. Per questo ci sentiamo di esprimerci, modestamente, senza pretese. Concordo con il pensiero dell’amico Rai che il Vaticano II sia stato un grande, importantissimo evento per tutta la cristianità, dopo secoli di sostanziale immobilismo, di pratica religiosa partecipata dai fedeli senza convinzione, senza comprendere bene che cosa significassero la fede, i precetti, i dogmi, la liturgia, in un atteggiamento distratto, supino, acritico. Il Vaticano II ha favorito una maggiore comprensione del proprio sentimento religioso da parte dei credenti veri ma ha indotto anche i credenti/indifferenti a fare un proprio esame di coscienza e ad astenersi da finte pratiche religiose e da ipocrite frequentazioni dei riti religiosi. Ha avvicinato la Chiesa alle coscienze e al proprio popolo ed ha giustamente allontanato, forse senza volerlo, i falsi fedeli. La nuova liturgia nelle lingue vive nazionali ha permesso ai fedeli di partecipare, di capire, ha trasformato le preghiere recitate come ignote filastrocche in orazioni comprensibili e significative. Le timide aperture verso le altre Chiese cristiane, protestanti e ortodosse con centinaia di milioni di membri, hanno avvicinato popoli che da secoli si combattevano, spesso anche con le armi. Una maggiore collegialità nella conduzione della Chiesa ha responsabilizzato di più le gerarchie intermedie e il clero a tutti i livelli. Un’interpretazione un po’ più “morbida” di certi obblighi e perfino di alcuni sacramenti ne è poi conseguita, provocando anche qualche ribellione più o meno palese qua e là, la più vistosa quella del vescovo Lefebvre e della sua organizzazione, poi in parte rientrata. Detto ciò, io sono tuttavia convinto che la scomparsa improvvisa e prematura di Giovanni XXIII abbia in parte interrotto un processo che sembrava avviato, per istanza di una parte cospicua di padri conciliari verso una riforma più profonda per avvicinare ancora di più la Chiesa Cattolica, in un vero ecumenismo, alle altre chiese cristiane, alcune delle quali disposte a fare a loro volta un mezzo passo. Il problema del celibato dei preti, causa non secondaria della scarsità di vocazioni, quello del sacerdozio femminile, l’atteggiamento verso i divorziati e le coppie di fatto (ricordo l’anatema di un vescovo toscano “pubblici concubini” nei confronti di una coppia che si sposava in Comune), l’interpretazione un po’ più libera e tollerante delle Scritture, una maggiore democratizzazione (parola ignota alla Chiesa) all’interno. L’ammorbidimento o addirittura, in certi casi, la repressione di certe vecchie pratiche con qualche contenuto semipagano, non approvate dagli altri cristiani. La semplificazione di certe cerimonie pompose (e costose). Del resto, alcune di queste istanze si sono realizzate di fatto e i fatti stessi lo hanno imposto, nel bene e nel male. Io penso che un Concilio Vaticano III che riesca ad introdurre riforme più coraggiose ed incisive, non solo riavvicinerebbe fra loro la maggior parte dei cristiani nel mondo, ma potrebbe riavvicinare alla Chiesa molti credenti ora tiepidi.

sabato 13 ottobre 2012

LE STRAGI IMPUNITE La ricorrenza della strage di Marzabotto e la recente sentenza di un tribunale tedesco che ha prosciolto alcuni ottuagenari già appartenenti ai reparti delle SS responsabili della strage di Sant’Anna di Stazzema, con la motivazione del tempo trascorso e della conseguente difficoltà a provare la responsabilità attiva nella partecipazione a quel barbaro evento, mi hanno fatto riflettere sulla poca propensione da parte dei popoli a riconoscere le proprie magagne. I nazisti e i comunisti staliniani possono indubbiamente vantare un triste record nella storia del XX secolo e in quella di tutta l’umanità, ma molti popoli, anche appartenenti al cosiddetto mondo civile, hanno crimini o pesanti complicità da farsi perdonare, e non pare che se ne siano fatti una sufficiente ragione, anzi, spesso tendono a dimenticarli se non addirittura a giustificarli. Gli americani in Vietnam e in Corea, in una guerra da loro stessi definita “sporca”, dove hanno bruciato vllaggi, ucciso molti abitanti compresi donne e bambini perché sospettati di collaborazione con i nemici, i cinesi nei confronti degli oppositori e di recalcitranti popolazioni contadine, i cambogiani con Pol Pot, gli spagnoli delle due parti durante e dopo la sanguinosa guerra civile, i francesi in Algeria con la folle idea di conservarsi una colonia assoggettando la maggioranza della popolazione, i turchi nei confronti dei curdi e degli armeni, i sudafricani bianchi nei confronti della maggioranza nera, i serbi a Srebrenica e in Bosnia. Noi italiani non dovremmo dimenticare le stragi di Graziani in Etiopia, con i massacri di civili e addirittura di seminaristi e preti copti, e in Libra, le fucilazioni di massa e la distruzione di interi paesi per rappresaglia nella ex Jugoslavia, le varie pulizie etniche delle due parti in Istria. Non stupisce quindi la ritrosia delle corti tedesche a condannare i responsabili dei crimini anche perché la stessa opinione pubblica ha sempre preferito ignorare i fatti se non a giustificarli con la fatalità della guerra. E’ ovvio che, a distanza di quasi settant’anni, processi e condanne siano quasi impossibili, ma il fatto grave è che i crimini stessi non abbiano trovato in tutti questi anni colpevoli in carne e ossa a tutti i livelli. Le condanne per crimini di guerra da parte degli americani nei confronti dei loro militari responsabili si possono contare sulle dita di una mano. Lo stesso dicasi dei francesi e si sa ben poco da parte dei russi e dei cinesi. La Turchia s’indigna e minaccia ritorsioni se qualcuno osa ricordare gli eccidi degli armeni e dei curdi. Dopo molti anni e forti resistenze la Corte Internazionale dell’Aia è riuscita a farsi consegnare Milosevic e Mladic, ma solo perché il governo serbo non ha avuto la forza di resistere alle pressioni internazionali. Raramente i colpevoli sono stati perseguiti e puniti. Il tribunale di Norimberga ha condannato alcuni capi nazisti, ma gli aguzzini dei campi di sterminio e i loro complici erano stati decine di migliaia. In Italia pochissimi militari tedeschi, sui quali si è riusciti a mettere le mani, sono stati processati e condannati. Così dicasi dei collaborazionisti fascisti beneficiari dell’amnistia Togliatti/De Gasperi e successivamente della poca voglia dei governi di allora di scoperchiare pentole che riguardavano personaggi utili alla politica (vedi l’occultamento di indagini e inchieste accuratamente archiviate nel famoso “armadio della vergogna” scoperto decenni dopo). Nessuno, dei militari italiani e dei gerarchi responsabili di crimini di guerra, è stato estradato verso i paesi dove avevano operato i loro misfatti, nonostante le pressanti richieste di quei governi negli anni successivi alla II guerra mondiale e le promesse fatte dagli alleati durante la guerra. La divisione del mondo in due blocchi, le necessità derivanti dalla guerra fredda e in seguito i pragmatismi diplomatici e certi revisionismi a senso unico hanno favorito colpi di spugna che a loro volta hanno determinato l’oblio delle coscienze, specialmente nelle nuove generazioni.

mercoledì 19 settembre 2012


LA POLEMICA SULLE PROVINCE

Diversamente dall’on. Foti che l’ha definita “una sciagura”, l’aggregazione delle quattro province dell’Emilia Occidentale, Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Modena, in una grande superprovincia, quasi una regione, proposta ufficialmente dal Consiglio Provinciale di Reggio Emilia, mi ha entusiasmato, lo ammetto. Io non ero favorevole, in linea di massima, alla soppressione o al riordino delle amministrazioni provinciali, salvo di un certo numero di esse, di recente costituzione e di poca tradizione. Ciò al contrario dell’on. Foti e del suo partito (che accusano gli altri di incoerenza) nel cui programma elettorale l’abolizione era  prevista e fortemente voluta.
Ora, visto che la cosiddetta “spending review” è stata approvata dal Parlamento anche con i voti del PDL (non personalmente dell’on. Foti), si tratta di analizzarne le conseguenze che, diciamo la verità, non giustificano certo la campagna apocalittica scatenata dalle nostre parti, come se si trattasse di occupazione straniera, di colonizzazione, di perdita d’identità, di finire sotto il tallone di qualche esercito o polizia alieni.
Concordo che i risparmi non saranno sensibili, almeno nell’immediato, almeno a Piacenza, perché il personale dovrà essere redistribuito, ma col tempo ve ne saranno, di  fisiologici anche sul personale, vendite di immobili e partecipazioni. Basti pensare all’eliminazione di parecchie centinaia di consiglieri, assessori, presidenti, vice presidenti, segretari provinciali e vice segretari provinciali, auto blu e di altri colori, palazzi di uffici di pregio nei centri storici. Eccetera. Come molti hanno detto, io compreso, ben altri risparmi si otterrebbero dall’accorpamento serio di molti comuni, compresi quelli di grandezza media, con parametri diversi per quelli di montagna.
La legge appena approvata prevede l’accorpamento di provincie vicine facenti parte della stessa regione. Nel nostro caso, con Parma ed eventualmente con Reggio e Modena. Vedo che non tutti sanno che l’abolizione totale degli enti non era possibile senza una riforma della Costituzione e non è da escludere che un giorno si decida di realizzarla.
E’ evidente che la campagna scatenata dai vertici della nostra Amministrazione Provinciale, nonché dai parlamentari del PDL e della Lega Nord, non aveva e non ha lo scopo di far sopravvivere la nostra provincia, destinata in ogni caso ad accorparsi con i vicini territori, ma quello, nemmeno tanto nascosto, di staccarci dall’Emilia Romagna per aggregarci al lodigiano e al cremasco e quindi alla regione lombarda. Sono abbastanza chiari i fini politici di tale programma, considerato il diverso orientamento delle due amministrazioni regionali.  Qualcuno vagheggia inoltre una Padania fino alle creste appenniniche. Valtellina con Valtrebbia. Ponte di Legno con Ferriere. Sondrio con Piacenza.
Si vorrebbe un referendum popolare per il passaggio alla Lombardia (costo circa un milione) ma si dimentica di dire che secondo l’articolo 132 della Costituzione anche le popolazioni dei singoli comuni avrebbero il diritto di esprimersi a maggioranza e che occorrerebbero in seguito leggi costituzionali per il passaggio. Ne risulterebbe certamente un ridicolo spezzatino e un lungo iter legislativo, mentre gli altri, nel frattempo, si organizzerebbero per dividersi le competenze, le deleghe, l’ubicazione dei servizi e degli uffici. Davvero i quarantasei sindaci del piacentino hanno sottoscritto un documento impegnativo per il passaggio alla Lombardia? Ho i miei dubbi.
Inoltre, quale provincia si vorrebbe costituire? Lodi, Crema con una parte dei comuni piacentini? Dove si vede l’omogeneità di storia, tradizioni, filosofia di vita, economia, cucina? Siamo sicuri che Lodi e Crema accetterebbero di collocare il capoluogo a Piacenza?
Al contrario, la lungimiranza dei nostri cugini reggiani suggerisce una grande, omogenea, ricca, superprovincia Emilia che in futuro, perché no?, potrebbe diventare regione e staccarsi da Bologna e dalla Romagna. Per il momento la grande provincia Emilia rappresenterebbe una importante realtà a livello europeo.
Smettiamola con il vittimismo nei confronti di Parma. La Cassa di Risparmio ha deciso autonomamente la fusione con Parma e in seguito ambedue le Casse sono state acquistate (ingoiate?) dalla milanese Banca Intesa e poi da una banca francese ed ora è una banca a respiro nazionale se non internazionale. Numerose altre banche si sono accorpate dando vita a realtà più importanti. Quante aziende piacentine sono state acquisite in questi anni da gruppi non piacentini? E allora? Sappiamo tutti che l’apertura di un magazzino IKEA al dettaglio fu boicottato dall’Amministrazione comunale di allora su pressione dei commercianti. Che cosa impedisce a Trenord di estendere il servizio da Lodi a Piacenza se le conviene? Un confine presidiato dall’armata del Po? La collocazione dell’Autorità europea per il controllo alimentare a Parma (anziché a Helsinki), deciso dall’Unione Europea e non da Parma, è un bene anche per noi, oppure anche Piacenza era uno dei candidati?  Del resto, nessuno dei filo-lombardi riesce a spiegare in dettaglio quali sarebbero per Piacenza e l’attuale sua provincia, da Bobbio a Morfasso, da Lugagnano a Fiorenzuola, i vantaggi pratici di una aggregazione con Lodi e Crema e quindi con le altre provincie lombarde. Io non ne vedo. Vedo solo una soggezione ben maggiore, una marginalità ben più marcata.
Le quattro province dell’Emilia occidentale (o anche solo tre) rappresenterebbero invece, lo ripeto, una comunità economica molto importante, dove il ruolo di Parma sarebbe ben compensato dal concorso delle altre importanti realtà e sarebbe anche interesse di Parma valorizzarle. E’ evidente che Piacenza in Consiglio provinciale sarebbe in minoranza, ma lo sarebbe anche Parma e ognuna delle altre province.